La chiesa della Santissima Annunziata sorge in uno dei luoghi più storici di Napoli.
Tra Spaccanapoli e il corso Umberto I, più precisamente in Via Forcella, la Basilica è considerata una dei capolavori architettonici di Vanvitelli. Una prima chiesa venne fondata nel XIII dagli Angioini, ma già nel 500 venne ampliata grazie a Ferdinando Manlio. La struttura dopo essere stata colpita da un incendio venne affidata proprio al Vanvitelli, artista della corte borbonica, che assieme al figlio Carlo, le diedero un aspetto tardo barocco. L'interno della chiesa è a croce latina con una navata unica. Lateralmente sono presenti sei cappelle, che ricordano la Cappella Palatina della Reggia di Caserta, realizzata dallo stesso Vanvitelli. La basilica attuale fa parte di un grande complesso monumentale che all'inizio era composto anche da un ospedale, un convento, uno ospizio per orfani ed un "conservatorio" per le esposte, ossia le ragazze povere o prive di famiglia, che venivano ospitate qui per conservare la loro virtù, ma a cui veniva fornita anche una piccola dote per essere maritate. La struttura all'inizio rappresentava una delle "Sante Case dell'Annunziata", un'antica e importante istituzione presente nel Regno di Napoli nel XIV secolo. Le case erano enti assistenziali per la cura dell'infanzia abbandonata ed erano governate dai laici.
L'istituzione, dedicata alla cura dell'infanzia abbandonata, era patrocinata dalla Congregazione della Santissima Annunziata, fondata nel 1318. La congregazione, sostenuta anche dalle famiglie nobili di Napoli ebbe vita lunga fino a metà del novecento. A sinistra dell'ingresso è ancora visibile, anche se oggi è chiuso, il pertugio attraverso cui venivano introdotti nella ruota di legno gli "esposti", cioè i neonati che le madri abbandonavano per miseria, o perchè illegittimi. Spesso accanto alla ruota era presente un campanello, così da avvisare le suore o le balie, che c'era un bimbo da accogliere. Indosso alcuni neonati non avevano nessun oggetto di riconoscimento, mentre altri erano accompagnati da un foglietto di carta con su scritto il nome dei genitori, oppure indossavano un pezzo d'oro o di argento. Tutto ciò che indossavano veniva annotato in un registro, casomai in un futuro qualcuno li avesse riconosciuti. I bambini ospiti della struttura venivano chiamati “figli della Madonna”, “figli d’a Nunziata” o appunto “esposti”. Il più diffuso tra i cognomi napoletani, Esposito, nasce proprio dalla storia di questa ruota. La ruota, una delle più note d’Italia, fu chiusa nel 1875, ma a causa della miseria, continuarono però ad essere lasciati sui gradini della basilica per molto tempo ancora.
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Questo caratteristico dolce da forno, imbevuto tradizionalmente a Napoli nel rum ha da sempre addolcito le domeniche delle famiglie napoletane.
La sua lievitazione lunga, la tecnica di preparazione e la sua inconfondibile forma a Cappello di chef lo rendono un dolce inconfondibile nella forma e nel gusto che si apprezza dal primo morso. La popolarità del babà è indiscussa, e le sue origini sono antichissime.
Il babà deriva da un dolce polacco il Babka Ponczowa; a cui i pasticceri francese gli hanno dato un’identità, migliorandolo, chiamandolo Baba e successivamente a Napoli venne trasformato in Babà! Nel 1700 il re di Polonia Stanislao Leszczynski, nobile molto raffinato,e colto che amava e promuoveva l’arte culinaria, era anche un sofisticato “gourmet” e gli venne attribuita la paternità del babà. Il nome di questo dolce deriva dai racconti delle Mille e una notte, Alì Babà e i quaranta ladroni che si racconta il re apprezzasse molto.
Si narra, che il re polacco che ormai non aveva i denti, stanco di mangiare sempre lo stesso dolce secco, un giorno scagliò quest’ultimo verso la credenza dove si ruppe una bottiglia di liquore che inzuppò il dolce. Il re dopo questo incidente fortunato lo assaggiò e lo trovò squisito.
Successivamente in Francia, giunse l’allora famoso pasticcere Nicolas Stohrer in occasione del matrimonio della figlia del re polacco Maria Leszczynski con il re di Francia Luigi XI. In quella occasione, venne creato il nostro famoso Babà donandogli la forma a fungo che bene conosciamo.
Ma la sua vera anima venne identificata poco più avanti. Nel XIX secolo il maestro Brillant-Savarin inventò un liquore che ben si accompagnava alle macedonie di frutta e di questa magnifica novità i fratelli Julien decisero di combinare un dolce matrimonio, abbinando il liquore al Babà chiamandolo Babà Savarin.
A Napoli nel 1836 il cuoco Angeletti scrisse un libro di ricette e descrisse il Babà con uvetta e zafferano, ingredienti che abbiamo perso negli anni per dare spazio ad una pasticceria più popolare e commerciale, arricchendolo con creme, gelati, panna e frutta ma esaltandolo senza privarlo della sua identità e senza mai deludere anche i palati più esigenti.
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Il Re con questa impresa architettonica, volle far risplendere Napoli, che dopo due secoli di viceregno spagnolo, era ritornata ad essere capitale di un regno indipendente.
Il nuovo sovrano decise il riassetto urbano della città e tra le varie idee ci fu appunto, quella di costruire un palazzo dove ospitare, una delle collezioni di opere d’arte più oggi famosa nel mondo, la collezione Farnese, ereditata da sua madre Elisabetta Farnese.
Il luogo prescelto fu la collina di Capodimonte, zona boschiva di Napoli, ricca di selvaggina, con l’idea di affiancare la reggia non solo ad uso museale, ma anche come luogo di svago dove risiedere durante, anche durante le battute di caccia.
Sostando nei pressi della fontana del Belvedere si godrà di una vista mozzafiato, con lo sguardo si abbraccia tutta Napoli dal Vesuvio, alla Certosa di San Martino fino a Posillipo.
Ma il sovrano Carlo III non si limitò alla costruzione della reggia, assieme a sua moglie Maria Amalia di Sassonia decisero di fondare la Real Fabbrica di porcellana di Capodimonte, dando vita ad una tradizione che non è mai terminata.
Il Museo di Capodimonte ufficialmente inaugurato nel 1957, ospita nelle sue sale i massimi esponenti della pittura Italia, e napoletana, un vero e proprio viaggio all’interno della storia dell’arte del nostro paese.
Fiore all’occhiello è come detto prima, la collezione Farnese, ma tra i capolavori non possiamo dimenticare opere di Raffaello, Tiziano, Sebastiano del Piombo, Michelangelo, El Greco, Bruegel il Vecchio. Oltre a pitture e disegni, arricchiscono la collezione oggetti rari e preziosi, che costituiscono la settecentesca ‘Galleria delle cose rare’.
Ma non possiamo dimenticare la galleria espositiva dedicata alla storia dell’arte napoletana e del centro Italia, che racconta in un arco temporale che va dal 200 al 700, l’avvicendarsi sul trono di Napoli di numerose famiglie nobiliari.
Ci sono stati eventi storici che hanno influenzato il mondo della cultura, arricchendola grazie ad ispirazioni che provenivano dall’estero. Molte delle opere che si ammirano appartenevano a chiese e conventi, alcune sono state prese letteralmente da queste strutture, mentre altre donate, così per tutelarle meglio.
Qui si incontrano artisti come Pinturicchio, Vasari, Artemisia Gentileschi, Luca Giordano, considerato il più grande pittore barocco in Europa dopo Rubens e tra i più grandi pittori del seicento napoletano a cui è stata dedicata una grande mostra” dalla natura alla pittura”.
Tra le opere che si trovano all’interno del museo non possiamo dimenticare uno degli artisti più geniali e controversi del seicento, Caravaggio, con una delle sue opere più famose, la “Flagellazione di Cristo” tela di formato più grande e più monumentale delle cinque o sei opere che il pittore eseguì alla fine del suo soggiorno a Napoli.
Cosa altro aggiungere, bisogna solo venire a visitare questo scrigno di arte, che offre non solo un immersione nell’arte ma anche nella natura.
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Il Rione Sanità venne utilizzato sin dall'epoca greco- romana come luogo di sepoltura, proprio perchè al di fuori delle mura della città di Napoli. In questa zona sorsero ipogei ellenistici e catacombe paleocristiane, come quelle di San Gaudioso e San Gennaro, cosa che strinse sempre di più la forte relazione tra uomo e morte. Questa relazione si è tramandata per secoli anche grazie al Cimiero delle Fontanelle, ex cava di tufo che venne utilizzata per ospitare le vittime della peste del 1656. Il nome derivava secondo il canonico Gennaro Aspreno Galante, dal fatto che questo fosse una zona salubre ed anche luogo di miracolose guarigioni, data la presenza di luoghi di antico culto paleocristiano. Proprio in questa zona, sorse uno dei più antichi ospedali di Napoli, l'ospedale San Gennaro dei Poveri.
Il Rione Sanità venne edificato nel XV secolo, situato tra amene campagne, questa zona inizialmente era destinata ad accogliere importanti famiglie nobiliari e facoltosi borghesi della città. Ancora oggi ci rimangono le testimonianze di questi importanti e maestosi palazzi, come il Palazzo dello Spagnuolo e il Palazzo Sanfelice. Col passare degli anni proprio il Rione divenne una delle zone più popolari e popolose di Napoli.
Prima di arrivare nel Rione Sanità, si incontra il borgo dei vergini, considerato idealmente la porta di ingresso alla Sanità. Il borgo dei vergini è detto anche il borgo barocco per lo stile dominante delle sue architetture. Si tratta di un'animatissima zona della città, un tempo fuori le mura, costituita dalla via dei Vergini, sede di un florido mercato all'aperto. Il nome deriva da una fratria religiosa greca, quella degli eunostidi, dedita alla temperanza e, soprattutto, alla castità.
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La chiesa del Gesù Nuovo è situata nel cuore del centro antico della città di Napoli, in Piazza del Gesù, di fronte la guglia dell’Immacolata, è una delle chiese più cara ai napoletani, dato che all’interno è custodito il corpo di San Giuseppe Moscati, il medico napoletano canonizzato santo da papa Giovanni Paolo II nel 1987.
La chiesa del Gesù Nuovo è una delle chiese con la massima concentrazione di pittura e scultura barocca, alla quale hanno lavorato alcuni dei più influenti artisti di scuola napoletana. La chiesa ha di per se una storia particolare. Essa infatti nasce come palazzo nobiliare della famiglia Sanseverino, una delle più importanti casate del regno di Napoli. La famiglia volle per la facciata del palazzo una decorazione a bugnato a forma di diamante, che per la loro particolare forma avrebbe dovuto far confluire le energie positive dall’esterno verso l’interno. in realtà alla luce delle peripezie della famiglia e del palazzo il risultato fu proprio l’opposto. Infatti la famiglia perse il palazzo che venne confiscato e venduto ai gesuiti. Una volta divenuto chiesa anche, qui la sorte non fu tanto benevola. La chiesa subì un incendio, la cupola crollo più volte, e durante la guerra una bomba cadde nella navata, fortunatamente senza esplodere.
Ancora oggi la misteriosa facciata del Gesù Nuovo, desta meraviglia e mistero, a causa dei misteriosi segni, incisi su ogni singola pietra
I gesuiti la fecero diventare una degli scrigni barocchi della città di Napoli. Entrati in possesso del palazzo, incaricarono della ristrutturazione di tutto il complesso i loro confratelli Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi sventrarono completamente il sontuoso palazzo, l’unica cosa che salvarono, è per l’appunto, la sontuosa facciata a bugne.
Ricca di decorazioni marmoree realizzate da Cosimo Fanzago, la chiesa è a croce greca. Sulla controfacciata, in corrispondenza della navata centrale, sopra il portale centrale, è presente il grandioso affresco di Francesco Solimena, con la Cacciata di Eliodoro dal Tempio.
Una chiesa che si trova nel cuore della città, che avvolta dall’arte e il mistero, merita davvero di essere conosciuta.
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I gesuiti la fecero diventare una degli scrigni barocchi della città di Napoli. Entrati in possesso del palazzo, incaricarono della ristrutturazione di tutto il complesso i loro confratelli Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi sventrarono completamente il sontuoso palazzo, l’unica cosa che salvarono, è per l’appunto, la sontuosa facciata a bugne.
Ricca di decorazioni marmoree realizzate da Cosimo Fanzago, la chiesa è a croce greca. Sulla controfacciata, in corrispondenza della navata centrale, sopra il portale centrale, è presente il grandioso affresco di Francesco Solimena, con la Cacciata di Eliodoro dal Tempio.
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Proprio alla Chiesa della Madonna di Piedigrotta, che sorge vicino al lungomare di Napoli, è legata una leggenda.
Un giorno nel bel mezzo di una tempesta, Frate Bernardino ritornò precipitosamente nella chiesa a controllare se tutto stesse al suo posto. Ma il frate non ebbe nemmeno il tempo di riprendersi dalla pioggia che rimase scioccato, vedendo che la statua della Madonna, situata sull’altare maggiore, non era più al suo posto.
Trafelato, chiamò subito l’Abate poiché si pensò ad un furto.
Ma dopo che il frate decise di dare una ricontrollata, vide la Madonna ritornare al suo posto col mantello bagnato spiegando di essere apparsa in soccorso ad alcuni marinai che l’avevano invocata impauriti dall’eccezionale tempesta, che esternamente imperversava.
Alla Vergine mancava una scarpetta: l’aveva tolta perché piena di sabbia e non aveva fatto in tempo a rimetterla. L’Abate in persona constatò che il mantello della Madonna era bagnato e che mancava proprio una scarpetta. Così prese a cercare la scarpetta mancante. Fu proprio lì, dove trovarono la scarpetta e la statua lignea dedicata alla Madonna, che ebbe inizio il culto.
Da questa leggenda deriva la tradizione di regalare alle spose una scarpetta con il simbolo del sole come buon auspicio e protezione. Sembra che a questa leggenda si faccia risalire anche la favola della “Gatta Cenerentola” di Giambattista Basile, dalla quale prese spunto la fiaba di Cenerentola di Charles Perrault, divenuta un classico della Disney.
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La chiesa di San Giovanni Carbonara, infatti, è quasi al confine con Porta Capuana, un tempo una delle principali porte di ingresso al regno di Napoli.
Una chiesa a più livelli, dovuta alla conformazione della zona, una chiesa che ha più stili architettonici, che vanno dallo stile gotico, rinascimentale, sino ad arrivare ai restauri avuti nel 700. San Giovanni a carbonara nasce nel 300, per desiderio di Gualtiero Galeota, nobile napoletano, che possedeva in questa zona, un tempo al di fuori delle mura del regno di Napoli, dei lotti di terra destinati a deposito e scarico di rifiuti inceneriti che grazie allo scorrimento di fiumi, che si trovavano in questa zona, confluivano poi in mare. Donato questo lotto di terra ai monaci agostiniani, questi iniziarono i lavori di edificazione.
Re Ladislao,nel 400 non solo volle un ampliamento della chiesa ma la destinò come Pantheon degli ultimi Angioini di Napoli, ospita all’interno oltre la monumentale tomba dei sovrani, Ladislao e la sorella Giovanna II , anche cappelle appartenenti alle varie famiglie nobili napoletani, come la cappella dei Caracciolo del Sole, o meglio conosciuta, come la Tomba di Ser Gianni Caracciolo, gran siniscalco del regno, ma rimasto nella storia, come il grande amore della regina Giovanna II.
Forse tra le meno conosciute è la cappella della famiglia Caracciolo di Vico, sorge fuori la linea di asse, dell’altare maggiore. La cappella squisitamente rinascimentale, fu voluta da Galeazzo Caracciolo, un potente maggiorente del sedil Capuano, appartenente ad una delle famiglie più potenti del viceregno spagnolo. La nascita della cappella, proprio qui in San Giovanni a Carbonara, è dovuta ad una prima esclusione, della chiesa di Donna Regina Vecchia, anche lei appartenente al Sedil Capuano, vicino alla dimora dei Caracciolo di Vico, ma il complesso religioso, già saturo di spazi, non avrebbe potuto ospitare un’altra cappella per la famiglia, quindi la scelta ricadde su la chiesta degli agostiniani, anche per via della presenza già in loco, della tomba del loro antenato Ser Gianni Caracciolo. Ma non solo, la scelta ricadde su san Giovanni a Carbonara, anche perché i padri agostiniani, concessero loro lo spazio vicino all’altare maggiore e al sontuoso monumento funebre di Re Ladislao.
Il progetto attribuito al Bramante, portò a due campagne di lavoro, il primo quarto del 500, ove venne costruito l’altare dell’epifania, Diego De Siloé e Bartolomeo Ordonez, e la seconda parte del 500, dove vennero costruite le due tombe, di Nicolantonio e Galeazzo. Particolare, e anche da aguzzare la vista è proprio l’altare dell’epifania. Infatti il Re mago a sinistra è stato identificato ora come Alfonso II d’Aragona ora come Ferdinando il Cattolico.
Non resta che visitare questo splendido e raro esempio di architettura rinascimentale napoletano.
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Costruito nel XII secolo per ordine del figlio di Ruggero il Normanno, Guglielmo il Malo, venne utilizzato subito come residenza reale, anche se il suo aspetto era più simile a quella di una fortezza militare. Nel 1231 difatti, Federico II gli diede un’ aspetto più simile ad una reggia, e degna di ospitare la famiglia reale.
Con la costruzione del Maschio Angioino, destinato a residenza reale, Castel Capuano divenne residenza dei membri della famiglia reale, dei residenti funzionari del regno e personaggi illustri come Francesco Petrarca. Nei secoli subì altre ristrutturazioni sino a diventare, con la venuta di Don Pedro de Toledo a Napoli, sede del palazzo di giustizia, dove riunì tutti i tribunali del regno.
A Napoli però storia e leggenda si intrecciano sempre, e proprio a Castel Capuano è legato la leggenda del “Fantasma degli avvocati”, uno spirito cruento, che ogni 19 aprile si aggira per le stanze del tribunale.
Secondo la tradizione popolare il fantasma in questione è quello della giovane e crudele Giuditta Guastamacchia, la sposa fedifraga che, proprio nell’aprile del 1800, fu processata e giustiziata dalla Gran Corte della Vicaria per aver assassinato il giovanissimo marito, fatto scempio del suo cadavere, con la complicità del suo amante, un prete, e di suo padre. La storia di Giuditta inizia quando giovanissima, con un bimbo piccolo da crescere, si ritrova sola e molto povera dopo la morte del marito. Il marito viene giustiziato per aver frodato il regno di Napoli. Il padre di Giuditta, nell’impossibilità di mantenere la figlia e il nipote, decide di chiuderla nel Convento di Sant’Antonio alla Vicaria, dal quale uscì solo nel 1794. E, proprio in convento, Giuditta intreccia una relazione amorosa con un sacerdote, don Stefano D’Aniello che, per allontanare i sospetti, si spaccerà come lo zio di Giuditta.
E proprio per salvare le apparenze, lo “Zio” prete decide di far venire dalla Puglia un suo giovane nipote di appena 16 anni, convincendolo a sposare la ragazza. Con il giovane marito il matrimonio non fu mai consumato e Giuditta rimase sempre a disposizione del prete. La situazione precipitò quando il giovane marito di Giuditta, scoprendo di essere stato truffato con un matrimonio farsa, decise di rendere pubblica la tresca di sua moglie con un religioso, facendo scoppiare uno scandalo. Giuditta, fiutato il pericolo, elaborò un vero e proprio piano criminale. Fece credere al padre di essere stata malmenata e derubata dal marito poi convolse l’amante prete, convincendolo a partecipare al delitto. Con uno stratagemma, il giovane marito di Giuditta, venne attirato in casa della donna e strangolato. Giuditta decise di sbarazzarsi del cadavere facendolo a pezzi, con l’aiuto di due complici, un barbiere e un chirurgo. Il povero ragazzo venne così maciullato e i suoi resti infilati in un sacco per essere poi dispersi nel bosco, in campagna e nel mare. Il piano però fallì. Il barbiere, fermato per un controllo dalle guardie reali mentre si sbarazzava dei resti del povero giovane, venne interrogato e confessò tutto, facendo il nome dei suoi complici. Giuditta provò a scappare ma la sua fuga terminò a Capodichino. Il Tribunale della Vicaria condannò tutti a morte per impiccagione, tranne lo zio prete che riuscì a cavarsela con l’ergastolo per non aver partecipato materialmente all’omicidio del nipote. Ma Giuditta ebbe una doppia punizione: considerata la mente criminale, dopo l’impiccagione, la testa e le mani le vennero amputate e messe in mostra, come una sorta di monito alla popolazione, a una delle finestre della vicaria. Il suo cranio, successivamente, utilizzato per studi di fisiognomica criminale e venne conservato ed esposto presso il Museo di Anatomia di Napoli. La sua anima nera, da allora, non trovò mai pace. La sposa maledetta, secondo la tradizione popolare, ricompare nel giorno della ricorrenza dell’esecuzione, il 19 aprile, nelle buie stanze di Castel Capuano.
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La pizza Napoletana che diventata patrimonio UNESCO nel 2010, ha una storia lontana e ricca. Molto più di un semplice alimento, è considerato un vero e proprio tesoro culinario, un orgoglio napoletano famoso e conosciuto nel mondo.
Napoli è sempre stata un crocevia di culture e molto probabilmente la pizza e le sue origini sono da ricercare, sia nel mondo greco con la “pinta” greca, ossia una forma di pane schiacciata, ma anche nel mondo arabo “pita”, il pane arabo originale che è grande e rotondo, fatto di acqua e farina e poi cotto in forno. Ma la pizza nel corso dei secoli è cambiata. All’inizio si parlava di una semplice focaccia o di una torta, ma dal 1300 in poi si inizia a parlare di “pizis” o “pissas”, che si riferivano ai prodotti tipici da forno che erano comuni nell’Italia meridionale del tempo. Si può iniziare a parlare di pizza nel 1600, che grazie all’ingegno culinario napoletano, che voleva rendere più gustosa la tradizionale schiacciata di pane. Ed ecco che nacque la pizza mastunicola, condita con aglio, strutto, sale grosso, formaggio e basilico. La pizza si inizierà a tingerà di rosso, grazie al pomodoro, dopo la scoperta delle Americhe, .Bisognerà aspettare la seconda metà del 1800 per avere la pizza classica che conosciamo con pomodoro e mozzarella, nata, , dalla fantasia e la bravura di un pizzaiolo napoletano, Raffaele Esposito. Nel 1889, anno in cui ci fu la prima visita a Napoli dei sovrani d’Italia Re Umberto e la Regina Margherita, il pizzaiolo Raffaele Esposito, realizzò per i sovrani tre pizze, la mastunicola, la marinara, e un’altra pizza con mozzarella e pomodoro. La sovrana apprezzò così tanto l’ultima pizza da voler ringraziare ed elogiare il pizzaiolo per iscritto. Per tale motivo e per contraccambiare, Raffaele Esposito diede il nome della Regina al suo capolavoro culinario, che da allora si è diffuso ed è espatriato in tutto il mondo proprio con il nome di “Pizza Margherita”.
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In molti si domandano se sia nato prima l’uovo o la gallina, nella città di Napoli, invece si discute sempre su quale sfogliatella sia nata prima, se la frolla o la riccia e se la Santa Rosa non sia in realtà La sfogliatella primigenia.
La sfogliatella, tipo dolce napoletano, nacque nel 1600 in Costiera Amalfitana, tra Furore e Conca dei Marini.
Delle molte leggende che si raccontano sulla nascita di questa opera di ingegneria culinaria, la più accreditata è sicuramente quella legata al convento di Santa Rosa ad Amalfi. Si narra che durante il XVII secolo le monache di clausura del convento di Santa Rosa fossero solite preparare infusi quali limoncello o nocillo e di venderli insieme ad altre leccornie, tipiche della tradizione costiera. Le suore, per questo motivo, erano solite creare nuove ricette.
Un giorno pare che una di queste monache, Madre Clotilde, non avesse il cuore di gettare del semolino cotto nel latte che era avanzato dalla sera precedente, quindi vi aggiunse frutta secca, zucchero e limoncello e decise di utilizzare il composto come farcia per due sfoglie ammorbidite con lo strutto e di cuocere il tutto nel forno, ma non senza aver dato prima alla composizione, la forma di un cappuccio da monaco. questo dolce, chiamato Santa Rosa, delicato ed equilibrato, dalla doppia consistenza croccante e cremosa, ebbe un rapidissimo successo presso i contadini della zona. Per arrivare a Napoli, però, questa leccornia, ci mise ben 200 anni. Infatti nel 1818, colui che all’epoca era ancora un oste, Pasquale Pintauro, entrò a contatto con questa delizia che lo conquistò letteralmente. Pasquale Pintauro era il proprietario di un’ osteria di via Toledo, , che s’impossessò della preziosissima ricetta. L’osteria divenne immediatamente pasticceria e la ricetta della Santa Rosa fu lievemente modificata insieme alla forma, che da cappuccio monacale divenne una piccola conchiglia barocca. Pintauro eliminò la crema e le amarene del ripieno e assottigliò la sfoglia è così che è nacque la sfogliatella napoletana.
Da lì poi la sfogliatella venne realizzata anche con la base di pastafrolla con lo stesso ripieno la sfogliatella frolla, più compatto e adatto al passeggio lungo via Toledo.
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La tombola napoletana, si sa, è un modo per festeggiare il natale ed aspettare l'arrivo del nuovo anno. La tombola napoletana ha però origini molto antiche. Il gioco della tombola nacque a Napoli nel 1734. Il re di Napoli e Sicilia Carlo III di Borbone voleva rendere pubblico il gioco del lotto, fino a quel momento clandestino nel Regno. L’idea era quella di ufficializzarlo per poterlo tassare e assicurarsi così una cospicua fonte di reddito.
Il frate domenicano Gregorio Maria Rocco però si opponeva al gioco del lotto ritenuto un “ingannevole ed amorale diletto”. Alla fine Carlo III riuscì a legalizzare il gioco del lotto, a patto che il gioco venisse sospeso nelle festività natalizie, per non distrarre i fedeli dalla preghiera. Ma il popolo napoletano, non volendo rinunciare al gioco durante le vacanze natalizie, trovò un'altra soluzione e riuscì ad organizzare un altro modo per passare il tempo durante il periodo di natale.
Il gioco del lotto era cosi famoso e diffuso a Napoli e nelle abitudini dei napoletani, che per non rinunciare a giocare, trasformarono il gioco del lotto in un gioco da tavola familiare. Si organizzarono in maniera più discreta e familiare, i 90 numeri del lotto furono rinchiusi in un cestino di vimini, chiamato il panariello, e furono disegnati i numeri su delle cartelle, trasformando il gioco pubblico, in un gioco più intimo e familiare.
Il termine tombola, nasce grazie alla forma cilindrica del pezzo di legno dove è impresso il numero e dal suo rumore che si crea nel panariello, grazie al fatto che di tanto in tanto viene fatto roteare per smuovere i numeri all’interno.
Ai novanta numeri furono associati personaggi, luoghi e date, parte del corpo umano e mestieri, che raccontano quasi una storia e sono rimasti, quasi inalterati fino ad oggi.
Il disegnare il significato dei numeri sulle cartelle, permetteva, di poter far partecipare al gioco, anche chi non sapeva leggere, ma tramite le figure, potevano riconoscere il numero.
La magia un tempo era data dai femminielli, persone uniche a metà tra il genere maschile e quello femminile. Termine creato dalla lingua napoletana, utilizzato per descrive un personaggio importantissimo per la nostra cultura, attaccata in maniera viscerale alle sue origini a metà strada tra la spiritualità pagana e saggezza popolare. Quasi una divinità che racchiude l’animo maschile e femminile, colui che conosce in maniera perfetta tutti e due i mondi, l’unico che per tradizione, essendo puro e al di sopra delle parti, può spiegare il significato dei numeri estratti dal panariello, proprio perché considerato spiritualità del popolo e portatore di buona fortuna, ossia la ciorta.
Oggi ne esiste ancora una versione quasi riveduta e corretta, della tombola dei femminielli, diciamo una versione moderna che è la Tombola Vajassa, sempre molto colorita con doppi sensi ammessi e graditi fatti con allegria e leggerezza, ma ove tutti possono partecipare, rispettando il concetto di convivialità.
Da allora il gioco della tombola si è tramandato nei secoli di famiglia in famiglia e, oggi, rappresenta uno dei principali passatempi durante le vacanze natalizie.
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E come da tradizione in quasi tutte le case e famiglie napoletane che si rispettino, si inizia la preparazione non solo dei vari menù per i giorni di festa, ma anche ad organizzarsi per le tombolate, riaprendo e prendendo dai vari mobili e cassetti il grande tesoro, riposto con cura l’anno scorso, ossia cartelle, cartellone, panariello e numeri, strumenti necessari per dare inizio al grande rito della tombola.
Un momento particolare quello della tombola napoletana , si riuniscono amici e parenti soprattutto dopo le cene delle due vigilie, mentre si attende la mezzanotte, mentre si aspetta la nascita del giorno nuovo e di un anno nuovo, nella speranza che porti più fortuna.
Ma in realtà come e perché è nata la tombola? La tombola nacque nel 1734 , grazie all’ingegno proverbiale dei napoletani, per raggirare un divieto di Re Carlo III di Borbone. Il Re aveva ufficializzato il gioco del lotto nel Regno di Napoli, cosi da poter incrementare le entrate casse del ragno, ma uno dei suoi più fidati consiglieri, il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, lo riteneva invece un gioco amorale ed ingannevole. Allora si arrivò ad un compromesso, il sovrano vietò il gioco durante le festività natalizie, cosi che i napoletani non si distraessero dalle preghiere. Il popolo però non voleva rinunciare al gioco del lotto, e a non poter tentare la fortuna, cosi trovarono uno stratagemma. Si organizzarono in maniera più discreta e familiare, i 90 numeri del lotto furono rinchiusi in un cestino di vimini, chiamato il panariello, e furono disegnati i numeri su delle cartelle, trasformando il gioco pubblico, in un gioco più intimo e familiare.
Il termine tombola, nasce grazie alla forma cilindrica del pezzo di legno dove è impresso il numero e dal suo rumore che si crea nel panariello, grazie al fatto che di tanto in tanto viene fatto roteare per smuovere i numeri all’interno. La tombola ha, come abbiamo visto, una storia antichissima, che nel corso dei secoli ha mantenuto intatto il suo scopo, sia quello di vincere una modesta somma di denaro, che quella principalmente di creare un momento conviviale unico, fatto di tante risate e magia.
La magia un tempo era data dai femminielli, persone uniche a metà tra il genere maschile e quello femminile. Termine creato dalla lingua napoletana, utilizzato per descrive un personaggio importantissimo per la nostra cultura, attaccata in maniera viscerale alle sue origini a metà strada tra la spiritualità pagana e saggezza popolare. Quasi una divinità che racchiude l’animo maschile e femminile, colui che conosce in maniera perfetta tutti e due i mondi, l’unico che per tradizione, essendo puro e al di sopra delle parti, può spiegare il significato dei numeri estratti dal panariello, proprio perché considerato spiritualità del popolo e portatore di buona fortuna, ossia la ciorta.
Le tombole dei femminielli, che erano numerosissime nei quartieri popolari e popolosi di Napoli, ed era una versione scostumatissima, della tombola familiare, utilizzando un linguaggio più colorito e pieno di doppi sensi. Un tempo le tombolate dei femminielli, invitati appositamente nelle abitazioni, proprio perché come detto sopra, erano portatori di ciorta e buon augurio, erano ammesse solo donne e bambini, gli uomini assistevano fuori le abitazioni. Erano quasi esclusi da questo incontro quasi esclusivamente al femminile.
Oggi ne esiste ancora una versione quasi riveduta e corretta, della tombola dei femminielli, diciamo una versione moderna che è la Tombola Vajassa, sempre molto colorita con doppi sensi ammessi e graditi fatti con allegria e leggerezza, ma ove tutti possono partecipare, rispettando il concetto di convivialità.
La tombola è una vera tradizione è un modo per riunirsi e perché no imparare “Pazzianno e Ridenno” qualcosa sulla nostra identità e sulla nostra cultura popolare.
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La villa comunale di Napoli è un vasto giardino piantato a lecci, pini, palme, eucalipti che si estende per oltre 1 Km tra piazza Vittoria e piazza della Repubblica, giardino che è fiancheggiato dalla Riviera di Chiaia e da Via Caracciolo.
La prima idea e fondazione della Villa Comunale di Napoli, risale al 1697, quando il vicerè duca di Medinacoeli fece piantare lungo la Riviera di Chiaia un doppio filare di alberi, che venne abbellito da tredici fontane.
Questa costruzione vicereale volle dare alla città di Napoli, una prima idea di passeggiata che dalla porta di Chiaia arrivava fino alla Crypta Neapolitana.
Ma la vera trasformazione di questa passeggiata, e della spiaggia lungo la riviera, avvenne per volere di Ferdinando IV di Borbone. Il sovrano tra il 1778 e il 1780 diede l’incarico a Carlo Vanvitelli, figlio del celebre Luigi Vanvitelli, di trasformare in parte la passeggiata, in un vero e proprio giardino urbano, molto in voga in quegli anni.
Carlo Vanvitelli prese esempio sia dai giardini francesi, sia dal Salon del paseo del Prado di Madrid creato dal re Carlo III in Spagna. Il Vanvitelli sviluppò diversi progetti e ricorse all’aiuto e ai consigli del botanico Felice Abbate, giardiniere reale. Lunghi viali paralleli abbelliti da statue e fontane, con un estensione senza una conclusione prospettica. Il disegno architettonico dava molta importanza e risalto alla vista del golfo di Napoli. All’ingresso principale, sul lato dell’attuale Piazza Vittoria, erano stati posizionati due casini simmetrici, che ospitavano caffè e botteghe di classe. Il giardino venne inaugurato l’11 luglio del 1781, sorvegliato da guardie, e con accesso consentito esclusivamente alle persone ben vestite.
Per volere di Giuseppe Bonaparte nei primi anni del XIX secolo la villa fu ingrandita e ridisegnata dagli architetti Stefano Gasse e Paolo Ambrosino. Incaricato per la scelta delle essenze arboree fu il tedesco Friedrich Dehnhardt, direttore dell’orto botanico. Nello stesso periodo si discuteva anche del rinnovamento della strada che affiancava il giardino, e si riaprì il dibattito sulla Villa e la creazione di una nuova strada. Le discussioni portarono alla creazione di Via Caracciolo, iniziata nel 1872 e terminata nel 1883, secondo il progetto di Alvino. Ma il giardino, con il prolungamento della strada, perse uno degli elementi che lo contraddistingueva, ossia il rapporto esclusivo con il mare.
Nel 1872 si iniziò la costruzione della Stazione Zoologica Anton Dohrn, l’acquario di Napoli più famoso ed antico d’Europa. Il naturalista seguace di Darwin, volle creare un centro che ancora oggi è luogo di eccellenza che cura e analizza gli animali che provengono tutti dal golfo di Napoli. Anni dopo iniziarono anche i lavori per la realizzazione della cassa Armonica.
Nel 1900 la parte occidentale della villa venne utilizzata per l’allestimento di padiglioni provvisori per l’esposizione Nazionale dell’Igiene, caratterizzati da uno stile eclettico con molti richiami allo stile liberty.
Nel 1924, fu eseguita in prima assoluta la Turandot per banda di Giacomo Puccini.
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La chiesa di Santa Maria la Nova è detta “nuova” per distinguerla da una precedente che sorgeva nel luogo ove fu edificato Castelnuovo e dove esisteva un convento di Frati Minori, che si voleva fondato da San Francesco. Carlo I distrusse il complesso cedendo in cambio ai frati, nel 1279, il terreno dove si trova l’attuale chiesa.
La facciata è preceduta da una scalinata del 1606, con balaustra marmorea; il portale, affiancato da due colonne di granito, è sormontato da un’edicola raffigurante la Vergine, di ignoto scultore della metà del seicento.
L’ampio invaso della navata, al quale si accede dal pronao su cui poggia il “coro sovrano” del 1620, è dominato dallo splendido soffitto cassettonato, uno degli esempi più interessanti e meglio conservato, eseguito tra il 1598-1603. Le tre tele maggiori poste lungo l’asse longitudinali del soffitto sono: la “Gloria di Maria” di Francesco Curia; “l’Assunzione della Vergine” di Girolamo Imparato(1603), l’Incoronazione di Maria di Fabrizio Santafede. La tela centrale è circondata da quattro tele più piccole di Bellisario Corenzio. Sugli archi delle cappelle furono dipinte da Nicola Malinconico nei primi anni del XVIII sec. le Dodici Virtù.
L’altare maggiore, del 1633 realizzato dal carrarese Mario Ciotti e Giuseppe Pelizza, collaboratori del Fanzago, su disegno di quest’ultimo, è adorno di putti bronzei fusi su disegno dello stesso Fanzago. Gli affreschi del coro furono iniziati nel 1603 da Corenzio e dai suoi collaboratori.
Nelle cappelle si trovano opere di Battistello Caracciolo, Bellisario Corenzio, Giovanni da Nola, Massimo Stanzione. Del complesso monumentale fanno parte due chiostri, di cui il più piccolo interamente affrescato con episodi della vita di San Giacomo della Marca e grottesche. Gli affreschi sono solitamente attribuiti a Simone Papa (1627-28); alle pareti si trovano monumenti funerari provenienti dalla chiesa, tra i quali quello di Matteo Ferrillo (1499), che secondo una leggenda, conserva i resti del leggendario Conte Dracula.
Nell’atrio d’ingresso al chiostro grande sono collocate due statue provenienti dall’Aula Magna dell’ ex Palazzo degli Studi, ambedue firmate e databili al primo quarto del ‘600, raffigurano L’Astronomia (o Filosofia) di Girolamo d’ Auria e Il Diritto di Francesco Cassano. Sulla parete di fondo dell’ ex Refettorio è affrescata l’Andata al Calvario attribuita ad Andrea Sabatini databile 1514 ca.
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Un tour quello di Napoli dal mare è un'esperienza unica, perchè significa conoscere questa terra, attraverso uno dei suoi elementi più caratterizzanti. Una visita che parte , con un gozzo di legno, per scoprire i fasti di un passato che affiora a pelo d’acqua. Ville Romane, residenze storiche, storie e leggende raccontate da esperti, dolcemente cullati dal mare è un esperienza che ognuno desidera fare.
Alla scoperta della collina di Posillipo lì, dove finisce il dolore e gli affanni trovano riparo sorge la costa di “Pauslypon”, definita così già dagli antichi greci e luogo scelto da Publio Vedio Pollione per far costruire la sua immensa residenza dove si ritirò a lussuosa vita privata.
“Il mare di Posillipo è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori, per gli innamorati di quell’ideale che informa e trasforma l’esistenza” (Matilde Serao).
Un luogo davvero suggestivo tra ville Romane, residenze storiche, leggende e ricco di storia, meta preferita dalla nobiltà vicereale, che adorava recarvi per le “passeggiate domenicali” in riva al mare, con il consueto corteo di carrozze e servitori al seguito.
Molto spesso le serate si concludevano nelle amene ville lungo la costa, in feste e balli di corte fino a tarda notte.
Tra le ville più ambite e belle c’era Palazzo Donn’Anna, oggi dal fascino decadente, è ancora l’edificio più dipinto, acquerellato, stampato e fotografato.
La bellissima ed unica erede del cospicuo patrimonio dei Carafa, Anna Carafa di Stigliano convolata a nozze con il Viceré Don Ramiro de Guzman, duca di Medina, diventa la donna più potente del ‘600.
La sua casina di delizie, pertanto, dovrà rispecchiare lo status di Viceregina raggiunto e affiderà l’incarico di restaurare il palazzo al più celebre architetto del tempo, Cosimo Fanzago, al quale non saranno posti limiti alle spese occorrenti per la realizzazione del progetto.
Purtroppo l’opera rimase incompiuta perché sopraggiunse la morte prematura della committente stessa, nel 1645, avvenuta in tragiche circostanze a soli trentacinque anni di età e il conseguente richiamo in patria di Don Ramiro, duca di Medina.
Scogli e isolette che racchiudono storie incredibili, una vegetazione che cresce rigogliosa negli splendidi giardini privati apprezzati dai viaggiatori di tutto il mondo nella rinascita di cui godette Posillipo nel 1800, il borgo Marechiaro che nel nome stesso rievoca la limpidezza ma, ancor di più, nel suo significato originario la tranquillità di quelle acque, incantano lo sguardo di uno scenario talmente unico che diventa difficile resistere alla tentazione di ritornarci.
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Ubicato in Via dei Vergini nel Rione Sanità, il Palazzo dello Spagnolo è uno dei palazzi monumentali che si trova nel pieno centro antico di Napoli.
Il Palazzo dello Spagnolo venne costruito nel 1738, su commissione del marchese di Poppano Nicola Moscati. Il marchese volle unificare due lotti di terra ricevuti dalla moglie. Il progetto venne affidato all’architetto Ferdinando Sanfelice. Il Sanfelice oltre al progetto dell’imponente palazzo, realizzò la monumentale scala a doppia rampa, chiamata ad “ali di falco”. La scala venne pensata come una sorta di luogo di incontro, ove avveniva una vera e propria vita sociale. Le decorazioni di stucco in stile rococò vennero affidati a Francesco Attanasio, ma eseguiti in un secondo momento da Aniello prezioso.
Infatti le porte di accesso agli appartamenti sono decorati con stucchi che inquadrano medaglioni con i ritratti a mezzo busto della famiglia che abitava quell’appartamento.
Il sovrano Carlo III di Borbone, spesso visitava il palazzo. Proprio nel palazzo infatti cambiava i suoi cavalli, per sostituirli con dei buoi, unici animali capaci di portarlo a Capodimonte, nella sua dimora di vacanza e di caccia. Attraversava la lunga e ripida Via Vergini per arrivare in quello che oggi uno dei musei più apprezzati al Mondo ossia il Museo di Capodimonte.
Alla fine del secolo, il palazzo venne acquistato da un nobile spagnolo, Tommaso Atienza, il cui il soprannome Spagnolo o Spagnuolo, è il motivo per cui il palazzo si chiama oggi in questo modo. Il nobile spagnolo realizzò delle opere di espansione, come la costruzione di un altro piano e facendo decorare tutto il piano nobile. Decorazioni che purtroppo sono andate perdute a causa dei cattivi restauri avvenuti nel corso degli anni.
A metà dell’ottocento il palazzo fu acquistato dalla famiglia Costa, grazie al fatto che il nobile Atienza, perse quasi tutto il suo patrimonio, indebitandosi a causa delle estrose opere di abbellimento del palazzo.
Secoli dopo, il palazzo come molti edifici di Napoli, vide la proprietà frammentarsi, arrivando sino ad oggi ad avere diverse proprietà private. La regione Campania è riuscita ad acquistare solo due degli appartamenti del palazzo. Nell’edificio in passato è stato ospitato L’Istituto delle guarrattelle, un vero e proprio museo dedicato ai burattini locali ed internazionali, invece il secondo e il terzo piano sono sede del museo dedicato a Totò, il principe della risata, vissuto proprio nel Rione Sanità.
Il palazzo dello Spagnuolo ancora oggi è considerato uno degli esempi più pregevoli di architettura civile in stile barocco napoletano all’interno del Rione Sanità
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Costruito tra il 1724 e il 1728, è progettato dall'architetto Ferdinando Sanfelice come abitazione per se e la sua famiglia. Palazzo Sanfelice venne costruito nel Rione Sanità proprio perchè era una zona fuori dalle mura della città, in un luogo tranquillo e salubre, rispetto all'affollatissimo centro di Napoli. L'architetto progetta il palazzo vicino ad un edificio che era già stato comprato dal Sanfelice, che di conseguenza venne inglobato nel progetto del maestoso palazzo. I portali gemelli in piperno e marmo, hanno sopra delle targhe, incorniciate tra statue di sirene, che raccontano la storia e la proprietà del palazzo.
Notevoli sono i cortili che sembrano delle vere e proprie scenografie per le ardite scale. Il primo cortile è a pianta ottagonale e permette di accedere al vestibolo dove si possono ancora ammirare i resti di alcuni affreschi di stemmi nobiliari appartenuti ai proprietari. Le scale invece sono la caratteristica del palazzo, e in generale della produzione dell'artistica dell'architetto, che chiamate scale ad ali di Falco, sono divenute famose nell'architettura europea. dalle scale si aprono delle finestre che realizzano nell'insieme una scenografia particolarissima. Gli scalini dell'ingresso sono ricoperti da pietra lavagna, un omaggio che l'architetto Sanfelice volle fare alla moglie ligure originaria proprio di Lavagna.
Il palazzo è stato utilizzato, nel corso degli anni, anche come set cinematografico, come per la trasposizione cinematografica del 1967 dell'opera di Eduardo De Filippo "Questi Fantasmi" e come per la più recente fiction " Mina Settembre".
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Oggi Porta San Gennaro, assieme alle sue ” Sorelle” Porta Capuana, Porta Nolana e Port’Alba, sono parte integrante della città, simbolo dell’antica storia del Regno di Napoli.
Porta San Gennaro risale probabilmente al VIII secolo d.C. Inizialmente era situata dietro la Chiesa del Gesù, la porta fu spostata più volte, quasi a seguire l’espansione delle mura cittadine. Trovò finalmente una sistemazione definitiva ma nel 1573, per volere del vicerè Don Pedro de Toledo, che volle sistemare porta San Gennaro su via Foria. Non lontana da Piazza Cavour, oggi ha di fronte a se l’antica Via Vergini ingresso del secolare Rione Sanità.
Porta San Gennaro era l’unico ingresso utilizzato da coloro che provenivano dalla parte settentrionale della città. Per molto tempo venne addirittura chiamata Porta del Tufo o dei Tufari perché proprio da qui entravano ed uscivano i carri pieni di blocchi di tufo, cavati nelle cave del Rione Sanità, utilizzati per le costruzioni degli edifici napoletani.
La domanda nasce in maniera spontanea, da dove nasce allora il suo nome? Semplicemente il nome della porta si deve al fatto che da qui partiva l’unica strada che portava i pellegrini alle catacombe di San Gennaro, patrono di Napoli, a Capodimonte. Se vogliamo era una sorta di strada sacra, un miglio sacro, proprio in città.
La porta ha al suo interno una statua di San Gaetano, posta nel 1656, per chiedere la grazia al santo di salvare la città dalla peste.
All’esterno della porta invece, c’è una statuetta che benedice, che grazie all’iscrizione “Divo Januario, apotropaco, sospes Neapolis”, fa capire che rappresenta San Gennaro.
La porta custodisce un tesoro, un affresco del pittore Mattia Preti. La leggenda narra che Mattia Preti, chiamato il Cavaliere calabrese, dal carattere focoso come il Caravaggio, si rifugiò a Napoli, nel 1653, per sfuggire alla cattura dopo aver ucciso un uomo a Roma.
Un’altra fonte invece racconta che arrivato a Napoli durante l’epidemia di peste fu arrestato e condannato a morte per aver ucciso una guardia che cercava di impedirgli l’ingresso in città, vietato per via dell’epidemia.
Fatto sta che il vicerè venne a sapere dell’accaduto, e concesse la grazia a Mattia Preti. In cambio l’artista, riuscì a riscattare la sua vita, solo dopo aver acconsentito di dipingere tutte le porte della capitale del Regno.
Prima dipinse Porta Capuana e Porta Nolana degli affreschi oggi non rimane traccia. Dipinse anche la Porta dello Spirito Santo, Porta Costantinopoli, Porta del Carmine e Porta di Chiaia, anche in questo caso né delle porte né degli affreschi non rimane traccia.
Ma fonti storiche, arrivate sino a noi, ci dicono che l’elemento pittorico che accomunava tutte le porte, era la rappresentazione di corpi senza vita dei cittadini che o sullo sfondo o in basso, sono portati al cimitero o dilaniati dagli animali.
Come detto prima, a noi oggi rimane solo l’affresco di Porta San Gennaro. Dipinto nel 1656 come ex voto dopo l’epidemia di peste, è ritornato di nuovo nel suo antico splendore grazie al restauro terminato a maggio 2021.
Dell’affresco di Mattia Preti ammiriamo come figura centrale la vergine Maria, con Gesù bambino tra le braccia. È lei la protagonista e l’unica figura illuminata insieme con un cartiglio che porta la scritta a rovescio ” Satis est Domine”.
Ai lati ci sono le figure dei santi che chiedono alla Vergine l’intercessione per la città di Napoli. Incontriamo San Gennaro, con le ampolle del sangue, San Francesco Saverio, con il dito puntato verso un’altra pergamena, con su scritto ” S. Franciscus xave patronus”. In fine Santa Rosalia, la santa protettrice invocata durante la peste.
In basso si vedono scene di disperati e una donna piena di piaghe, e con dei cenci in testa, che seduta su alcuni gradini, morde sé stessa. È lei la rappresentazione, l’incarnazione e l’allegoria più forte e significativa, quella della Peste.
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I campi ardenti, questo è il nome che fu dato ai Campi Flegrei, dai cumani provenienti dalla Grecia, “Phlegrea” appunto significa ardente, area che si trova nel golfo di Pozzuoli, famosa sin dall’antichità per la sua attività vulcanica.
I greci già prima della colonizzazione, hanno raccontato la realtà di questi luoghi, da ormai 3000 anni abbiamo delle vere e proprie testimonianze mitologiche. Lo stesso Eschilo considerò questa terra ardente luogo di alcune battaglie della Gigantomachie, battaglie tra Giganti e Dei.
Primo insediamento cumano e poi punto fondamentale dell’impero romano, grazie alla costruzione, per volere dell’imperatore Traiano a Puteoli, oggi Pozzuoli, del porto di Roma, utilizzato come punto di snodo dei commerci verso l’Oriente. Ancora oggi è visibile, in ogni angolo della città, la sua antichissima storia.
A sottolineare l’importanza di questa città portuale sorsero edifici monumentali, come il grande mercato pubblico al coperto, Macellum, chiamato Tempio di Serapide, nome dovuto al ritrovamento nel 700, di una statua dedicata a questa divinità egizia. Il Macellum, ancora oggi, è considerato il misuratore del Bradisismo, attività vulcanica fa aumentare o diminuire l’altezza della città rispetto al livello del mare.
Con l’arrivo del cristianesimo, degli edifici furono trasformati riadattati per il nuovo culto religioso, come il Tempio dedicato ad Augusto, trasformato nel duomo di Pozzuoli, dedicato santo patrono, il martire Procolo. A pochi passi, è possibile immergersi totalmente nell’atmosfera dell’antico impero romano, entrando nell’Anfiteatro Flavio. Costruito dagli stessi architetti del Colosseo a Roma, voluto dall’imperatore Vespasiano, era il circo dei puteolani.
Nell’ Anfiteatro si svolgevano spettacoli teatrali, spettacoli musicali e l’immancabile lotta dei gladiatori. Nei suoi sotterranei ancora oggi è possibile vedere degli ingranaggi che venivano utilizzati per sollevare fino all’arena le gabbie con le belve feroci, e probabilmente anche scenografie utilizzate durante gli spettacoli.
Luogo anche della passione dei primi cristiani, proprio qui infatti, per volere dell’imperatore Diocleziano, venivano portati i primi martiri cristiani per essere sbranati dai leoni.
Lo stesso San Gennaro, santo patrono di Napoli, venne portato qui, ma il giorno deciso, per la sua esecuzione riuscì a salvarsi … infatti la leggenda vuole che entrato nell’arena benedì le fiere feroci, che si ammansirono ai suoi piedi.
Ma la vera origine di questa zona è, come detto, Cuma. Il viaggiatore non può fare a meno di visitare i resti di questa antica città. Strabone nel suo Geographia, parla dell’antica Cuma come della città greca più antica della Sicilia.
I suoi fondatori trovarono una terra fertile, e pur continuando la loro tradizione marinara e commerciale, il potere economico e politico di Cuma si basò proprio sullo sfruttamento della terra ed estesero il loro territorio. A questo antichissimo territorio è strettamente legato il culto ed il mito della Sibilla Cumana che qui trova il suo misterico antro. Lo stesso Virgilio nel terzo libro delle Eneide, vaticinò l’immortale destino di Roma, scriverà di Enea che dovrà recarsi proprio qui ad interrogare la Sibilla, per trovare finalmente la terra destinata al suo popolo dagli dei.
Non resta che visitare questo luogo paradisiaco, in un luogo infero. Circondato dal fascino del mare e dalla potenza dei vulcani.
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Tipico piatto della domenica col suo profumo e il suo sapore il ragù napoletano, vi farà innamorare. La storia del ragù napoletano parte da molto lontano. Il suo antenato sembra essere un piatto tipico della cucina medievale francese, il daube de boeuf che risaliva al XVI secolo. Questo piatto era composto da uno stufato di pezzi di carne di bue unito a delle verdure. La sua cottura era molto lenta ed era fatta in un recipiente di creta. Ma degli antenati del ragù si parla anche di un altro piatto della cucina francese, Il ragout, piatto francese posteriore era sempre uno stufato di carne e verdure, dove però veniva utilizzato un altro tipo di carne che di solito era di montone. Il Ragout arrivò nella cucina napoletana solo verso il XVIII secolo sotto il regno di Ferdinando di Borbone. Proprio sotto il regno di Ferdinando ci fu una grande influenza della cultura e della moda francese a corte, e di conseguenza anche molti piatti francesi arrivarono nel regno. Molti piatti napoletani presero il nome dalle storpiature dei nomi francesi, come successe per il Ragù. Fu proprio Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV, a introdurre nelle cucine dei palazzi nobili la moda dei cuochi francesi, arricchendo le mense con questo sostanzioso piatto a base di carne di manzo o vitello di prima qualità, ma ancora privo di pomodoro.
La versione napoletana del ragout venne modificata, così come la assaporiamo oggi. Il ragout arrivato a corte e chiamato dopo Ragù, fu inventato dai monsù napoletani nelle splendide cucine della nobiltà partenopea. I sapienti cuochi aggiunsero al saporito stufato di carne la salsa di pomodoro, ma così era troppo semplice, ed ecco che nella carne fece la sua comparsa il maccarone, ossia la pasta. Proprio il maccarone ci voleva per raccogliere e contenere questa prelibatezza avvolta dall’oro rosso che è il pomodoro.
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All’interno della chiesa di Santa Maria del Parto, ancora oggi si può ammirare la tomba del poeta Jacopo Sannazaro e il presepe di Giovanni da Nola.
Federico I di Napoli, salito al trono del Regno nel 1497, concesse al Sannazaro una pensione di seicento ducati, oltre ad un terreno nella zona di Mergellina. Il terreno precedentemente era appartenuto ai monaci benedettini del convento dei Santi Severino e Sossio.
Molto probabilmente nel podere già esisteva una villa, e lo stesso Sannazaro fece aggiungere una torre. Il Sannazaro inoltre, fece progettare anche due chiese sovrapposte. I lavori per la realizzazione delle chiese iniziarono nel 1504, quando il poeta si trasferì a Mergellina. La chiesa sottostante venne terminata nel 1525, interamente scavata nel tufo, simile alla vicina tomba del poeta Virgilio, con un ingresso autonomo e dedicata a Santa Maria del Parto, nome che deriva da una delle opere del Sannazaro De Partu Virginis.
La chiesa divenne luogo di preghiera per tutte le donne incinte o per quelle che desideravano avere un figlio. Infatti c’era l’usanza di riunirsi ogni 25 di ogni mese per recitare preghiere in favore di queste donne. Con la morte di Sannazaro, la chiesa cadde in abbandono, venendo utilizzata come luogo di sepoltura per gli appartenenti alla confraternita del Santissimo Rosario. Sebbene gli affreschi siano scomparsi definitivamente dalla chiesa sotterranea, lo splendore del luogo ha superato il passare del tempo. La chiesa sarà narrata dai viaggiatori e dagli amanti dell’arte. Il destino della chiesa superiore invece, fu più controverso. Concepita come una cappella privata dedicata a San Nazario, la chiesa rimase parzialmente incompiuta a causa dell’epidemia di peste del seicento, e anche a causa dell’instabilità politica che attanagliarono Napoli durante questo periodo storico. Nel 1529, infatti, il Sannazaro donò la chiesa ai Servi di Maria, che si assicurarono di portare i lavori a conclusione, regalando magnificenza al santuario.
Il poeta espresse ai padri servi di Maria, la volontà che i suoi resti riposassero nella chiesa. Il monumento funebre che accoglie le spoglie del poeta, fu disegnato secondo teorie accreditate, dallo stesso Sannazaro. Il monumento funebre è di chiara ispirazione rinascimentale. Con fortissimi riferimenti allo stile di Michelangelo Buonarroti. Sulla parte superiore si trova un bassorilievo di Marsia e Nettuno, mentre ai lati si trovano le statue di apollo e Minerva. L’opera è completata dal busto del poeta, ritratto dalla sua maschera funeraria e che alla base presenta il nome di Actius Sincerus; pseudonimo assunto dall’umanista dopo aver aderito all’Accademia Pontaniana. Nella chiesa inoltre è conservato uno splendido presepe ligneo opera di Giovanni da Nola che il Sannazaro aveva commissionato nel 1520, con le statue di Maria, Giuseppe e tre pastori, mentre nell’abside sono posizionate le statue di San Nazario e San Jacopo, eseguite da Bartolomeo Ammannati.
Ma la chiesa conserva una tela misteriosa … il dipinto di Leonardo da Pistoia, chiamato il Diavolo di Mergellina o il San Michele che calpesta il demonio. La particolarità dell’opera sta nel fatto che il demonio è raffigurato con il volto bellissimo di una donna identificata come Vittoria Colonna d’Avalos, che tentò di sedurre il giovane cardinale Diomede Carafa.
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Venne costruito nel 1406 per volere di Antonio Penne segretario di re Ladislao d’Urazzo. Il proprietario volle ricordarlo con un’epigrafe situata proprio sul portale. Il palazzo ha un piccolo slargo, che era considerato il primo ingresso alla città. L’architettura di palazzo Penne è molto particolare, fonde, come accade a palazzo Carafa, elementi catalani con l’arco ribassato e lo stile toscano, con l’utilizzo di bugne nella facciata. L’arco è caratterizzato da incisione particolare che in italiano vuol dire “tu che giri la testa, o invidioso, e non guardi volentieri questo (palazzo), possa di tutti essere invidioso, nessuno (lo è) di te”.
La facciata del palazzo ha in tre filari di bugne con al centro il rilievo della penna, simbolo della famiglia nonché simbolo della funzione di segretario e consigliere che ricopriva Antonio Penne nei confronti di re Ladislao. Ma ad accompagnare questa decorazione, ci sono altri otto filari con su inciso il giglio angioino, in onore di re Ladislao.
Alla costruzione del palazzo Penne è legata una leggenda napoletana, che racconta che il palazzo sia stato costruito da Belzebù in persona per volere proprio di Antonio Penne, che aveva suggellato con lui un patto di sangue … si racconta che Antonio si era innamorato follemente di una giovane dama. La donna però avrebbe acconsentito al matrimonio, se solo Antonio fosse stato capace di costruire il suo palazzo in una notte. Per accontentarla, Penne aveva chiamato in suo aiuto il diavolo. Il diavolo acconsentì ad aiutarlo ma in cambio avrebbe avuto l’anima di Antonio.
Ma il patto conteneva una clausola aggiunta da Penne. Lui avrebbe dato la sua anima a Belzebù se fosse stato capace di contare i numerosissimi chicchi di grano che erano stati sparsi nel cortile del palazzo. Una volta finita la costruzione del palazzo, il diavolo iniziò a contare velocemente il grano, ma ad un certo punto gli fu impossibile continuare … difatti Penne oltre al grano aveva sparso anche della pece, il che rese impossibile al diavolo continuare perché i chicchi di grano si attaccavano alle mani del demonio e questi non riusciva a contare. A quel punto Antonio Penne si fece il segno della croce, e questo gesto aprì una voragine nella quale il diavolo sprofondò. La voragine venne utilizzata come pozzo ormai chiuso, ma ancora visibile a chi riesce a visitare il meraviglioso palazzo rinascimentale partenopeo.
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Infatti le bellezze artistiche della città assieme alla cultura vanno a braccetto con la storia della cucina napoletana.
La cucina napoletana ha antichissime radici storiche che risalgono al periodo greco romano, passando per le dominazioni francesi e spagnole. La cucina napoletana proprio così si è arricchita di piatti che vanno dai più elaborati a quelli più popolari, che ha iniziato a trovare la sua immagine con la formazione della città capitale di un Regno con gli Angioini.
Negli anni per le nuove esigenze di una città in espansione, e di un regno che affermava la sua immagine anche attraverso la sua tavola, alcuni piatti sono passati alla storia. L’identità napoletana cominciava a definirsi, prendendo spunti da molti ricettari diversi.
Il “Ritratto di Napoli” di Giambattista del Tufo, inizia a descrivere Napoli e la sua cucina nel cinquecento, che già era celebre per i suoi cibi raffinati. A Napoli si trovavano ingredienti di grande qualità e quantità, soprattutto frutta e verdura, che nei mercati, ancora oggi, erano disposti in maniera spettacolare e quasi pittoresca, ornati con fiori, e sapienti accostamenti di colore.
La tavola napoletana privilegiava i piatti di verdure, che è uno degli ingredienti principali ancora ora della nostra cucina. La verdura più diffusa, già dal cinquecento, era il broccolo, in napoletano Friariello cucinato in maniera semplice e gustoso. Proprio per il gran consumo di verdure i napoletani erano chiamati i mangiafoglie, ma nel 500 con l'arrivo della produzione di pasta, lo scenario cambia e i napoletani diverranno mangiamaccheroni. A Napoli la pasta iniziò ad essere lavorate con trafile molto varie e con il tempo furono ideati varie forme di pasta, le zite, i maltagliati, i paccari, i fusilli, i perciatelli gli spaghetti, i vermicelli e le linguine. Molte salse furono inventate o adattate a questi tipi di pasta, soprattutto la salsa di pomodoro, che divenne in brevissimo tempo l’accostamento preferito ai maccheroni.
Durante l'Illuminismo e la dominazione francese, l'influenza d'oltralpe è evidentissima nella cucina partenopea: nascono il ragù napoletano, il gateau di patate e il famoso crocchè. Nell'Ottocento il divario tra la borghesia e il popolo diventa sempre più ampio, tanto che iniziano ad essere preparate ricette riservate alle diverse classi, come il brodo di polpo e la zuppa di freselle tipiche dei sobborghi partenopei. A questo periodo si fa risalire anche la nascita della pizza così come la conosciamo oggi, con le sue varie declinazioni. Le tradizioni culinarie napoletane sono diventate famose nel mondo sopravvissuta al “Nuovo Mondo”, ed alcuni dei suoi piatti non passeranno mai di moda, sono dei veri capolavori di sapori, profumi, ed è consigliabile a chi non è napoletano di assaggiarli, mentre al napoletano di conservarlo nella memoria e nelle tradizioni della tavola.
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