La chiesa della Santissima Annunziata sorge in uno dei luoghi più storici di Napoli.
Tra Spaccanapoli e il corso Umberto I, più precisamente in Via Forcella, la Basilica è considerata una dei capolavori architettonici di Vanvitelli. Una prima chiesa venne fondata nel XIII dagli Angioini, ma già nel 500 venne ampliata grazie a Ferdinando Manlio. La struttura dopo essere stata colpita da un incendio venne affidata proprio al Vanvitelli, artista della corte borbonica, che assieme al figlio Carlo, le diedero un aspetto tardo barocco. L'interno della chiesa è a croce latina con una navata unica. Lateralmente sono presenti sei cappelle, che ricordano la Cappella Palatina della Reggia di Caserta, realizzata dallo stesso Vanvitelli. La basilica attuale fa parte di un grande complesso monumentale che all'inizio era composto anche da un ospedale, un convento, uno ospizio per orfani ed un "conservatorio" per le esposte, ossia le ragazze povere o prive di famiglia, che venivano ospitate qui per conservare la loro virtù, ma a cui veniva fornita anche una piccola dote per essere maritate. La struttura all'inizio rappresentava una delle "Sante Case dell'Annunziata", un'antica e importante istituzione presente nel Regno di Napoli nel XIV secolo. Le case erano enti assistenziali per la cura dell'infanzia abbandonata ed erano governate dai laici.
L'istituzione, dedicata alla cura dell'infanzia abbandonata, era patrocinata dalla Congregazione della Santissima Annunziata, fondata nel 1318. La congregazione, sostenuta anche dalle famiglie nobili di Napoli ebbe vita lunga fino a metà del novecento. A sinistra dell'ingresso è ancora visibile, anche se oggi è chiuso, il pertugio attraverso cui venivano introdotti nella ruota di legno gli "esposti", cioè i neonati che le madri abbandonavano per miseria, o perchè illegittimi. Spesso accanto alla ruota era presente un campanello, così da avvisare le suore o le balie, che c'era un bimbo da accogliere. Indosso alcuni neonati non avevano nessun oggetto di riconoscimento, mentre altri erano accompagnati da un foglietto di carta con su scritto il nome dei genitori, oppure indossavano un pezzo d'oro o di argento. Tutto ciò che indossavano veniva annotato in un registro, casomai in un futuro qualcuno li avesse riconosciuti. I bambini ospiti della struttura venivano chiamati “figli della Madonna”, “figli d’a Nunziata” o appunto “esposti”. Il più diffuso tra i cognomi napoletani, Esposito, nasce proprio dalla storia di questa ruota. La ruota, una delle più note d’Italia, fu chiusa nel 1875, ma a causa della miseria, continuarono però ad essere lasciati sui gradini della basilica per molto tempo ancora.
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Il Re con questa impresa architettonica, volle far risplendere Napoli, che dopo due secoli di viceregno spagnolo, era ritornata ad essere capitale di un regno indipendente.
Il nuovo sovrano decise il riassetto urbano della città e tra le varie idee ci fu appunto, quella di costruire un palazzo dove ospitare, una delle collezioni di opere d’arte più oggi famosa nel mondo, la collezione Farnese, ereditata da sua madre Elisabetta Farnese.
Il luogo prescelto fu la collina di Capodimonte, zona boschiva di Napoli, ricca di selvaggina, con l’idea di affiancare la reggia non solo ad uso museale, ma anche come luogo di svago dove risiedere durante, anche durante le battute di caccia.
Sostando nei pressi della fontana del Belvedere si godrà di una vista mozzafiato, con lo sguardo si abbraccia tutta Napoli dal Vesuvio, alla Certosa di San Martino fino a Posillipo.
Ma il sovrano Carlo III non si limitò alla costruzione della reggia, assieme a sua moglie Maria Amalia di Sassonia decisero di fondare la Real Fabbrica di porcellana di Capodimonte, dando vita ad una tradizione che non è mai terminata.
Il Museo di Capodimonte ufficialmente inaugurato nel 1957, ospita nelle sue sale i massimi esponenti della pittura Italia, e napoletana, un vero e proprio viaggio all’interno della storia dell’arte del nostro paese.
Fiore all’occhiello è come detto prima, la collezione Farnese, ma tra i capolavori non possiamo dimenticare opere di Raffaello, Tiziano, Sebastiano del Piombo, Michelangelo, El Greco, Bruegel il Vecchio. Oltre a pitture e disegni, arricchiscono la collezione oggetti rari e preziosi, che costituiscono la settecentesca ‘Galleria delle cose rare’.
Ma non possiamo dimenticare la galleria espositiva dedicata alla storia dell’arte napoletana e del centro Italia, che racconta in un arco temporale che va dal 200 al 700, l’avvicendarsi sul trono di Napoli di numerose famiglie nobiliari.
Ci sono stati eventi storici che hanno influenzato il mondo della cultura, arricchendola grazie ad ispirazioni che provenivano dall’estero. Molte delle opere che si ammirano appartenevano a chiese e conventi, alcune sono state prese letteralmente da queste strutture, mentre altre donate, così per tutelarle meglio.
Qui si incontrano artisti come Pinturicchio, Vasari, Artemisia Gentileschi, Luca Giordano, considerato il più grande pittore barocco in Europa dopo Rubens e tra i più grandi pittori del seicento napoletano a cui è stata dedicata una grande mostra” dalla natura alla pittura”.
Tra le opere che si trovano all’interno del museo non possiamo dimenticare uno degli artisti più geniali e controversi del seicento, Caravaggio, con una delle sue opere più famose, la “Flagellazione di Cristo” tela di formato più grande e più monumentale delle cinque o sei opere che il pittore eseguì alla fine del suo soggiorno a Napoli.
Cosa altro aggiungere, bisogna solo venire a visitare questo scrigno di arte, che offre non solo un immersione nell’arte ma anche nella natura.
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La chiesa del Gesù Nuovo è situata nel cuore del centro antico della città di Napoli, in Piazza del Gesù, di fronte la guglia dell’Immacolata, è una delle chiese più cara ai napoletani, dato che all’interno è custodito il corpo di San Giuseppe Moscati, il medico napoletano canonizzato santo da papa Giovanni Paolo II nel 1987.
La chiesa del Gesù Nuovo è una delle chiese con la massima concentrazione di pittura e scultura barocca, alla quale hanno lavorato alcuni dei più influenti artisti di scuola napoletana. La chiesa ha di per se una storia particolare. Essa infatti nasce come palazzo nobiliare della famiglia Sanseverino, una delle più importanti casate del regno di Napoli. La famiglia volle per la facciata del palazzo una decorazione a bugnato a forma di diamante, che per la loro particolare forma avrebbe dovuto far confluire le energie positive dall’esterno verso l’interno. in realtà alla luce delle peripezie della famiglia e del palazzo il risultato fu proprio l’opposto. Infatti la famiglia perse il palazzo che venne confiscato e venduto ai gesuiti. Una volta divenuto chiesa anche, qui la sorte non fu tanto benevola. La chiesa subì un incendio, la cupola crollo più volte, e durante la guerra una bomba cadde nella navata, fortunatamente senza esplodere.
Ancora oggi la misteriosa facciata del Gesù Nuovo, desta meraviglia e mistero, a causa dei misteriosi segni, incisi su ogni singola pietra
I gesuiti la fecero diventare una degli scrigni barocchi della città di Napoli. Entrati in possesso del palazzo, incaricarono della ristrutturazione di tutto il complesso i loro confratelli Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi sventrarono completamente il sontuoso palazzo, l’unica cosa che salvarono, è per l’appunto, la sontuosa facciata a bugne.
Ricca di decorazioni marmoree realizzate da Cosimo Fanzago, la chiesa è a croce greca. Sulla controfacciata, in corrispondenza della navata centrale, sopra il portale centrale, è presente il grandioso affresco di Francesco Solimena, con la Cacciata di Eliodoro dal Tempio.
Una chiesa che si trova nel cuore della città, che avvolta dall’arte e il mistero, merita davvero di essere conosciuta.
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La chiesa del Gesù Nuovo è una delle chiese con la massima concentrazione di pittura e scultura barocca, alla quale hanno lavorato alcuni dei più influenti artisti di scuola napoletana. La chiesa ha di per se una storia particolare. Essa infatti nasce come palazzo nobiliare della famiglia Sanseverino, una delle più importanti casate del regno di Napoli. La famiglia volle per la facciata del palazzo una decorazione a bugnato a forma di diamante, che per la loro particolare forma avrebbe dovuto far confluire le energie positive dall’esterno verso l’interno. in realtà alla luce delle peripezie della famiglia e del palazzo il risultato fu proprio l’opposto. Infatti la famiglia perse il palazzo che venne confiscato e venduto ai gesuiti. Una volta divenuto chiesa anche, qui la sorte non fu tanto benevola. La chiesa subì un incendio, la cupola crollo più volte, e durante la guerra una bomba cadde nella navata, fortunatamente senza esplodere.
Ancora oggi la misteriosa facciata del Gesù Nuovo, desta meraviglia e mistero, a causa dei misteriosi segni, incisi su ogni singola pietra
I gesuiti la fecero diventare una degli scrigni barocchi della città di Napoli. Entrati in possesso del palazzo, incaricarono della ristrutturazione di tutto il complesso i loro confratelli Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi sventrarono completamente il sontuoso palazzo, l’unica cosa che salvarono, è per l’appunto, la sontuosa facciata a bugne.
Ricca di decorazioni marmoree realizzate da Cosimo Fanzago, la chiesa è a croce greca. Sulla controfacciata, in corrispondenza della navata centrale, sopra il portale centrale, è presente il grandioso affresco di Francesco Solimena, con la Cacciata di Eliodoro dal Tempio.
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Costruito nel XII secolo per ordine del figlio di Ruggero il Normanno, Guglielmo il Malo, venne utilizzato subito come residenza reale, anche se il suo aspetto era più simile a quella di una fortezza militare. Nel 1231 difatti, Federico II gli diede un’ aspetto più simile ad una reggia, e degna di ospitare la famiglia reale.
Con la costruzione del Maschio Angioino, destinato a residenza reale, Castel Capuano divenne residenza dei membri della famiglia reale, dei residenti funzionari del regno e personaggi illustri come Francesco Petrarca. Nei secoli subì altre ristrutturazioni sino a diventare, con la venuta di Don Pedro de Toledo a Napoli, sede del palazzo di giustizia, dove riunì tutti i tribunali del regno.
A Napoli però storia e leggenda si intrecciano sempre, e proprio a Castel Capuano è legato la leggenda del “Fantasma degli avvocati”, uno spirito cruento, che ogni 19 aprile si aggira per le stanze del tribunale.
Secondo la tradizione popolare il fantasma in questione è quello della giovane e crudele Giuditta Guastamacchia, la sposa fedifraga che, proprio nell’aprile del 1800, fu processata e giustiziata dalla Gran Corte della Vicaria per aver assassinato il giovanissimo marito, fatto scempio del suo cadavere, con la complicità del suo amante, un prete, e di suo padre. La storia di Giuditta inizia quando giovanissima, con un bimbo piccolo da crescere, si ritrova sola e molto povera dopo la morte del marito. Il marito viene giustiziato per aver frodato il regno di Napoli. Il padre di Giuditta, nell’impossibilità di mantenere la figlia e il nipote, decide di chiuderla nel Convento di Sant’Antonio alla Vicaria, dal quale uscì solo nel 1794. E, proprio in convento, Giuditta intreccia una relazione amorosa con un sacerdote, don Stefano D’Aniello che, per allontanare i sospetti, si spaccerà come lo zio di Giuditta.
E proprio per salvare le apparenze, lo “Zio” prete decide di far venire dalla Puglia un suo giovane nipote di appena 16 anni, convincendolo a sposare la ragazza. Con il giovane marito il matrimonio non fu mai consumato e Giuditta rimase sempre a disposizione del prete. La situazione precipitò quando il giovane marito di Giuditta, scoprendo di essere stato truffato con un matrimonio farsa, decise di rendere pubblica la tresca di sua moglie con un religioso, facendo scoppiare uno scandalo. Giuditta, fiutato il pericolo, elaborò un vero e proprio piano criminale. Fece credere al padre di essere stata malmenata e derubata dal marito poi convolse l’amante prete, convincendolo a partecipare al delitto. Con uno stratagemma, il giovane marito di Giuditta, venne attirato in casa della donna e strangolato. Giuditta decise di sbarazzarsi del cadavere facendolo a pezzi, con l’aiuto di due complici, un barbiere e un chirurgo. Il povero ragazzo venne così maciullato e i suoi resti infilati in un sacco per essere poi dispersi nel bosco, in campagna e nel mare. Il piano però fallì. Il barbiere, fermato per un controllo dalle guardie reali mentre si sbarazzava dei resti del povero giovane, venne interrogato e confessò tutto, facendo il nome dei suoi complici. Giuditta provò a scappare ma la sua fuga terminò a Capodichino. Il Tribunale della Vicaria condannò tutti a morte per impiccagione, tranne lo zio prete che riuscì a cavarsela con l’ergastolo per non aver partecipato materialmente all’omicidio del nipote. Ma Giuditta ebbe una doppia punizione: considerata la mente criminale, dopo l’impiccagione, la testa e le mani le vennero amputate e messe in mostra, come una sorta di monito alla popolazione, a una delle finestre della vicaria. Il suo cranio, successivamente, utilizzato per studi di fisiognomica criminale e venne conservato ed esposto presso il Museo di Anatomia di Napoli. La sua anima nera, da allora, non trovò mai pace. La sposa maledetta, secondo la tradizione popolare, ricompare nel giorno della ricorrenza dell’esecuzione, il 19 aprile, nelle buie stanze di Castel Capuano.
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La tombola napoletana, si sa, è un modo per festeggiare il natale ed aspettare l'arrivo del nuovo anno. La tombola napoletana ha però origini molto antiche. Il gioco della tombola nacque a Napoli nel 1734. Il re di Napoli e Sicilia Carlo III di Borbone voleva rendere pubblico il gioco del lotto, fino a quel momento clandestino nel Regno. L’idea era quella di ufficializzarlo per poterlo tassare e assicurarsi così una cospicua fonte di reddito.
Il frate domenicano Gregorio Maria Rocco però si opponeva al gioco del lotto ritenuto un “ingannevole ed amorale diletto”. Alla fine Carlo III riuscì a legalizzare il gioco del lotto, a patto che il gioco venisse sospeso nelle festività natalizie, per non distrarre i fedeli dalla preghiera. Ma il popolo napoletano, non volendo rinunciare al gioco durante le vacanze natalizie, trovò un'altra soluzione e riuscì ad organizzare un altro modo per passare il tempo durante il periodo di natale.
Il gioco del lotto era cosi famoso e diffuso a Napoli e nelle abitudini dei napoletani, che per non rinunciare a giocare, trasformarono il gioco del lotto in un gioco da tavola familiare. Si organizzarono in maniera più discreta e familiare, i 90 numeri del lotto furono rinchiusi in un cestino di vimini, chiamato il panariello, e furono disegnati i numeri su delle cartelle, trasformando il gioco pubblico, in un gioco più intimo e familiare.
Il termine tombola, nasce grazie alla forma cilindrica del pezzo di legno dove è impresso il numero e dal suo rumore che si crea nel panariello, grazie al fatto che di tanto in tanto viene fatto roteare per smuovere i numeri all’interno.
Ai novanta numeri furono associati personaggi, luoghi e date, parte del corpo umano e mestieri, che raccontano quasi una storia e sono rimasti, quasi inalterati fino ad oggi.
Il disegnare il significato dei numeri sulle cartelle, permetteva, di poter far partecipare al gioco, anche chi non sapeva leggere, ma tramite le figure, potevano riconoscere il numero.
La magia un tempo era data dai femminielli, persone uniche a metà tra il genere maschile e quello femminile. Termine creato dalla lingua napoletana, utilizzato per descrive un personaggio importantissimo per la nostra cultura, attaccata in maniera viscerale alle sue origini a metà strada tra la spiritualità pagana e saggezza popolare. Quasi una divinità che racchiude l’animo maschile e femminile, colui che conosce in maniera perfetta tutti e due i mondi, l’unico che per tradizione, essendo puro e al di sopra delle parti, può spiegare il significato dei numeri estratti dal panariello, proprio perché considerato spiritualità del popolo e portatore di buona fortuna, ossia la ciorta.
Oggi ne esiste ancora una versione quasi riveduta e corretta, della tombola dei femminielli, diciamo una versione moderna che è la Tombola Vajassa, sempre molto colorita con doppi sensi ammessi e graditi fatti con allegria e leggerezza, ma ove tutti possono partecipare, rispettando il concetto di convivialità.
Da allora il gioco della tombola si è tramandato nei secoli di famiglia in famiglia e, oggi, rappresenta uno dei principali passatempi durante le vacanze natalizie.
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E come da tradizione in quasi tutte le case e famiglie napoletane che si rispettino, si inizia la preparazione non solo dei vari menù per i giorni di festa, ma anche ad organizzarsi per le tombolate, riaprendo e prendendo dai vari mobili e cassetti il grande tesoro, riposto con cura l’anno scorso, ossia cartelle, cartellone, panariello e numeri, strumenti necessari per dare inizio al grande rito della tombola.
Un momento particolare quello della tombola napoletana , si riuniscono amici e parenti soprattutto dopo le cene delle due vigilie, mentre si attende la mezzanotte, mentre si aspetta la nascita del giorno nuovo e di un anno nuovo, nella speranza che porti più fortuna.
Ma in realtà come e perché è nata la tombola? La tombola nacque nel 1734 , grazie all’ingegno proverbiale dei napoletani, per raggirare un divieto di Re Carlo III di Borbone. Il Re aveva ufficializzato il gioco del lotto nel Regno di Napoli, cosi da poter incrementare le entrate casse del ragno, ma uno dei suoi più fidati consiglieri, il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, lo riteneva invece un gioco amorale ed ingannevole. Allora si arrivò ad un compromesso, il sovrano vietò il gioco durante le festività natalizie, cosi che i napoletani non si distraessero dalle preghiere. Il popolo però non voleva rinunciare al gioco del lotto, e a non poter tentare la fortuna, cosi trovarono uno stratagemma. Si organizzarono in maniera più discreta e familiare, i 90 numeri del lotto furono rinchiusi in un cestino di vimini, chiamato il panariello, e furono disegnati i numeri su delle cartelle, trasformando il gioco pubblico, in un gioco più intimo e familiare.
Il termine tombola, nasce grazie alla forma cilindrica del pezzo di legno dove è impresso il numero e dal suo rumore che si crea nel panariello, grazie al fatto che di tanto in tanto viene fatto roteare per smuovere i numeri all’interno. La tombola ha, come abbiamo visto, una storia antichissima, che nel corso dei secoli ha mantenuto intatto il suo scopo, sia quello di vincere una modesta somma di denaro, che quella principalmente di creare un momento conviviale unico, fatto di tante risate e magia.
La magia un tempo era data dai femminielli, persone uniche a metà tra il genere maschile e quello femminile. Termine creato dalla lingua napoletana, utilizzato per descrive un personaggio importantissimo per la nostra cultura, attaccata in maniera viscerale alle sue origini a metà strada tra la spiritualità pagana e saggezza popolare. Quasi una divinità che racchiude l’animo maschile e femminile, colui che conosce in maniera perfetta tutti e due i mondi, l’unico che per tradizione, essendo puro e al di sopra delle parti, può spiegare il significato dei numeri estratti dal panariello, proprio perché considerato spiritualità del popolo e portatore di buona fortuna, ossia la ciorta.
Le tombole dei femminielli, che erano numerosissime nei quartieri popolari e popolosi di Napoli, ed era una versione scostumatissima, della tombola familiare, utilizzando un linguaggio più colorito e pieno di doppi sensi. Un tempo le tombolate dei femminielli, invitati appositamente nelle abitazioni, proprio perché come detto sopra, erano portatori di ciorta e buon augurio, erano ammesse solo donne e bambini, gli uomini assistevano fuori le abitazioni. Erano quasi esclusi da questo incontro quasi esclusivamente al femminile.
Oggi ne esiste ancora una versione quasi riveduta e corretta, della tombola dei femminielli, diciamo una versione moderna che è la Tombola Vajassa, sempre molto colorita con doppi sensi ammessi e graditi fatti con allegria e leggerezza, ma ove tutti possono partecipare, rispettando il concetto di convivialità.
La tombola è una vera tradizione è un modo per riunirsi e perché no imparare “Pazzianno e Ridenno” qualcosa sulla nostra identità e sulla nostra cultura popolare.
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La villa comunale di Napoli è un vasto giardino piantato a lecci, pini, palme, eucalipti che si estende per oltre 1 Km tra piazza Vittoria e piazza della Repubblica, giardino che è fiancheggiato dalla Riviera di Chiaia e da Via Caracciolo.
La prima idea e fondazione della Villa Comunale di Napoli, risale al 1697, quando il vicerè duca di Medinacoeli fece piantare lungo la Riviera di Chiaia un doppio filare di alberi, che venne abbellito da tredici fontane.
Questa costruzione vicereale volle dare alla città di Napoli, una prima idea di passeggiata che dalla porta di Chiaia arrivava fino alla Crypta Neapolitana.
Ma la vera trasformazione di questa passeggiata, e della spiaggia lungo la riviera, avvenne per volere di Ferdinando IV di Borbone. Il sovrano tra il 1778 e il 1780 diede l’incarico a Carlo Vanvitelli, figlio del celebre Luigi Vanvitelli, di trasformare in parte la passeggiata, in un vero e proprio giardino urbano, molto in voga in quegli anni.
Carlo Vanvitelli prese esempio sia dai giardini francesi, sia dal Salon del paseo del Prado di Madrid creato dal re Carlo III in Spagna. Il Vanvitelli sviluppò diversi progetti e ricorse all’aiuto e ai consigli del botanico Felice Abbate, giardiniere reale. Lunghi viali paralleli abbelliti da statue e fontane, con un estensione senza una conclusione prospettica. Il disegno architettonico dava molta importanza e risalto alla vista del golfo di Napoli. All’ingresso principale, sul lato dell’attuale Piazza Vittoria, erano stati posizionati due casini simmetrici, che ospitavano caffè e botteghe di classe. Il giardino venne inaugurato l’11 luglio del 1781, sorvegliato da guardie, e con accesso consentito esclusivamente alle persone ben vestite.
Per volere di Giuseppe Bonaparte nei primi anni del XIX secolo la villa fu ingrandita e ridisegnata dagli architetti Stefano Gasse e Paolo Ambrosino. Incaricato per la scelta delle essenze arboree fu il tedesco Friedrich Dehnhardt, direttore dell’orto botanico. Nello stesso periodo si discuteva anche del rinnovamento della strada che affiancava il giardino, e si riaprì il dibattito sulla Villa e la creazione di una nuova strada. Le discussioni portarono alla creazione di Via Caracciolo, iniziata nel 1872 e terminata nel 1883, secondo il progetto di Alvino. Ma il giardino, con il prolungamento della strada, perse uno degli elementi che lo contraddistingueva, ossia il rapporto esclusivo con il mare.
Nel 1872 si iniziò la costruzione della Stazione Zoologica Anton Dohrn, l’acquario di Napoli più famoso ed antico d’Europa. Il naturalista seguace di Darwin, volle creare un centro che ancora oggi è luogo di eccellenza che cura e analizza gli animali che provengono tutti dal golfo di Napoli. Anni dopo iniziarono anche i lavori per la realizzazione della cassa Armonica.
Nel 1900 la parte occidentale della villa venne utilizzata per l’allestimento di padiglioni provvisori per l’esposizione Nazionale dell’Igiene, caratterizzati da uno stile eclettico con molti richiami allo stile liberty.
Nel 1924, fu eseguita in prima assoluta la Turandot per banda di Giacomo Puccini.
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I campi ardenti, questo è il nome che fu dato ai Campi Flegrei, dai cumani provenienti dalla Grecia, “Phlegrea” appunto significa ardente, area che si trova nel golfo di Pozzuoli, famosa sin dall’antichità per la sua attività vulcanica.
I greci già prima della colonizzazione, hanno raccontato la realtà di questi luoghi, da ormai 3000 anni abbiamo delle vere e proprie testimonianze mitologiche. Lo stesso Eschilo considerò questa terra ardente luogo di alcune battaglie della Gigantomachie, battaglie tra Giganti e Dei.
Primo insediamento cumano e poi punto fondamentale dell’impero romano, grazie alla costruzione, per volere dell’imperatore Traiano a Puteoli, oggi Pozzuoli, del porto di Roma, utilizzato come punto di snodo dei commerci verso l’Oriente. Ancora oggi è visibile, in ogni angolo della città, la sua antichissima storia.
A sottolineare l’importanza di questa città portuale sorsero edifici monumentali, come il grande mercato pubblico al coperto, Macellum, chiamato Tempio di Serapide, nome dovuto al ritrovamento nel 700, di una statua dedicata a questa divinità egizia. Il Macellum, ancora oggi, è considerato il misuratore del Bradisismo, attività vulcanica fa aumentare o diminuire l’altezza della città rispetto al livello del mare.
Con l’arrivo del cristianesimo, degli edifici furono trasformati riadattati per il nuovo culto religioso, come il Tempio dedicato ad Augusto, trasformato nel duomo di Pozzuoli, dedicato santo patrono, il martire Procolo. A pochi passi, è possibile immergersi totalmente nell’atmosfera dell’antico impero romano, entrando nell’Anfiteatro Flavio. Costruito dagli stessi architetti del Colosseo a Roma, voluto dall’imperatore Vespasiano, era il circo dei puteolani.
Nell’ Anfiteatro si svolgevano spettacoli teatrali, spettacoli musicali e l’immancabile lotta dei gladiatori. Nei suoi sotterranei ancora oggi è possibile vedere degli ingranaggi che venivano utilizzati per sollevare fino all’arena le gabbie con le belve feroci, e probabilmente anche scenografie utilizzate durante gli spettacoli.
Luogo anche della passione dei primi cristiani, proprio qui infatti, per volere dell’imperatore Diocleziano, venivano portati i primi martiri cristiani per essere sbranati dai leoni.
Lo stesso San Gennaro, santo patrono di Napoli, venne portato qui, ma il giorno deciso, per la sua esecuzione riuscì a salvarsi … infatti la leggenda vuole che entrato nell’arena benedì le fiere feroci, che si ammansirono ai suoi piedi.
Ma la vera origine di questa zona è, come detto, Cuma. Il viaggiatore non può fare a meno di visitare i resti di questa antica città. Strabone nel suo Geographia, parla dell’antica Cuma come della città greca più antica della Sicilia.
I suoi fondatori trovarono una terra fertile, e pur continuando la loro tradizione marinara e commerciale, il potere economico e politico di Cuma si basò proprio sullo sfruttamento della terra ed estesero il loro territorio. A questo antichissimo territorio è strettamente legato il culto ed il mito della Sibilla Cumana che qui trova il suo misterico antro. Lo stesso Virgilio nel terzo libro delle Eneide, vaticinò l’immortale destino di Roma, scriverà di Enea che dovrà recarsi proprio qui ad interrogare la Sibilla, per trovare finalmente la terra destinata al suo popolo dagli dei.
Non resta che visitare questo luogo paradisiaco, in un luogo infero. Circondato dal fascino del mare e dalla potenza dei vulcani.
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All’interno della chiesa di Santa Maria del Parto, ancora oggi si può ammirare la tomba del poeta Jacopo Sannazaro e il presepe di Giovanni da Nola.
Federico I di Napoli, salito al trono del Regno nel 1497, concesse al Sannazaro una pensione di seicento ducati, oltre ad un terreno nella zona di Mergellina. Il terreno precedentemente era appartenuto ai monaci benedettini del convento dei Santi Severino e Sossio.
Molto probabilmente nel podere già esisteva una villa, e lo stesso Sannazaro fece aggiungere una torre. Il Sannazaro inoltre, fece progettare anche due chiese sovrapposte. I lavori per la realizzazione delle chiese iniziarono nel 1504, quando il poeta si trasferì a Mergellina. La chiesa sottostante venne terminata nel 1525, interamente scavata nel tufo, simile alla vicina tomba del poeta Virgilio, con un ingresso autonomo e dedicata a Santa Maria del Parto, nome che deriva da una delle opere del Sannazaro De Partu Virginis.
La chiesa divenne luogo di preghiera per tutte le donne incinte o per quelle che desideravano avere un figlio. Infatti c’era l’usanza di riunirsi ogni 25 di ogni mese per recitare preghiere in favore di queste donne. Con la morte di Sannazaro, la chiesa cadde in abbandono, venendo utilizzata come luogo di sepoltura per gli appartenenti alla confraternita del Santissimo Rosario. Sebbene gli affreschi siano scomparsi definitivamente dalla chiesa sotterranea, lo splendore del luogo ha superato il passare del tempo. La chiesa sarà narrata dai viaggiatori e dagli amanti dell’arte. Il destino della chiesa superiore invece, fu più controverso. Concepita come una cappella privata dedicata a San Nazario, la chiesa rimase parzialmente incompiuta a causa dell’epidemia di peste del seicento, e anche a causa dell’instabilità politica che attanagliarono Napoli durante questo periodo storico. Nel 1529, infatti, il Sannazaro donò la chiesa ai Servi di Maria, che si assicurarono di portare i lavori a conclusione, regalando magnificenza al santuario.
Il poeta espresse ai padri servi di Maria, la volontà che i suoi resti riposassero nella chiesa. Il monumento funebre che accoglie le spoglie del poeta, fu disegnato secondo teorie accreditate, dallo stesso Sannazaro. Il monumento funebre è di chiara ispirazione rinascimentale. Con fortissimi riferimenti allo stile di Michelangelo Buonarroti. Sulla parte superiore si trova un bassorilievo di Marsia e Nettuno, mentre ai lati si trovano le statue di apollo e Minerva. L’opera è completata dal busto del poeta, ritratto dalla sua maschera funeraria e che alla base presenta il nome di Actius Sincerus; pseudonimo assunto dall’umanista dopo aver aderito all’Accademia Pontaniana. Nella chiesa inoltre è conservato uno splendido presepe ligneo opera di Giovanni da Nola che il Sannazaro aveva commissionato nel 1520, con le statue di Maria, Giuseppe e tre pastori, mentre nell’abside sono posizionate le statue di San Nazario e San Jacopo, eseguite da Bartolomeo Ammannati.
Ma la chiesa conserva una tela misteriosa … il dipinto di Leonardo da Pistoia, chiamato il Diavolo di Mergellina o il San Michele che calpesta il demonio. La particolarità dell’opera sta nel fatto che il demonio è raffigurato con il volto bellissimo di una donna identificata come Vittoria Colonna d’Avalos, che tentò di sedurre il giovane cardinale Diomede Carafa.
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Venne costruito nel 1406 per volere di Antonio Penne segretario di re Ladislao d’Urazzo. Il proprietario volle ricordarlo con un’epigrafe situata proprio sul portale. Il palazzo ha un piccolo slargo, che era considerato il primo ingresso alla città. L’architettura di palazzo Penne è molto particolare, fonde, come accade a palazzo Carafa, elementi catalani con l’arco ribassato e lo stile toscano, con l’utilizzo di bugne nella facciata. L’arco è caratterizzato da incisione particolare che in italiano vuol dire “tu che giri la testa, o invidioso, e non guardi volentieri questo (palazzo), possa di tutti essere invidioso, nessuno (lo è) di te”.
La facciata del palazzo ha in tre filari di bugne con al centro il rilievo della penna, simbolo della famiglia nonché simbolo della funzione di segretario e consigliere che ricopriva Antonio Penne nei confronti di re Ladislao. Ma ad accompagnare questa decorazione, ci sono altri otto filari con su inciso il giglio angioino, in onore di re Ladislao.
Alla costruzione del palazzo Penne è legata una leggenda napoletana, che racconta che il palazzo sia stato costruito da Belzebù in persona per volere proprio di Antonio Penne, che aveva suggellato con lui un patto di sangue … si racconta che Antonio si era innamorato follemente di una giovane dama. La donna però avrebbe acconsentito al matrimonio, se solo Antonio fosse stato capace di costruire il suo palazzo in una notte. Per accontentarla, Penne aveva chiamato in suo aiuto il diavolo. Il diavolo acconsentì ad aiutarlo ma in cambio avrebbe avuto l’anima di Antonio.
Ma il patto conteneva una clausola aggiunta da Penne. Lui avrebbe dato la sua anima a Belzebù se fosse stato capace di contare i numerosissimi chicchi di grano che erano stati sparsi nel cortile del palazzo. Una volta finita la costruzione del palazzo, il diavolo iniziò a contare velocemente il grano, ma ad un certo punto gli fu impossibile continuare … difatti Penne oltre al grano aveva sparso anche della pece, il che rese impossibile al diavolo continuare perché i chicchi di grano si attaccavano alle mani del demonio e questi non riusciva a contare. A quel punto Antonio Penne si fece il segno della croce, e questo gesto aprì una voragine nella quale il diavolo sprofondò. La voragine venne utilizzata come pozzo ormai chiuso, ma ancora visibile a chi riesce a visitare il meraviglioso palazzo rinascimentale partenopeo.
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